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martedì 15 settembre 2015

Cecilia Strada : Vent'Anni di Emergency


Cecilia Strada racconta i vent'anni di Emergency
"Tutto iniziò in cucina, da un'idea di papà" ricorda la figlia di Gino e presidente dell'associazione.

Sul computer, l’immagine di una radiografia: è il cranio di un bambino di Kabul, con una pallottola in fronte. «Aveva 8 mesi, purtroppo non siamo riusciti a salvarlo». Poi appare la foto di una neonata, nello stesso ospedale. «La madre era stata ferita all’addome, ora stanno bene entrambe». La giornata di Cecilia Strada, presidente di Emergency, è sempre così: emozioni forti, un lavoro senza ferie né
weekend ma che non cambierebbe mai, perché «fai la differenza tra la vita e la morte». Nel 2014
l’associazione compie 20 anni e la Mostra del Cinema di Venezia ha festeggiato l’anniversario con
Jaeger-LeCoultre, che dal 2011 è a fianco della Ong e dallo scorso anno sostiene il Centro chirurgico e pediatrico di Goderich, in Sierra Leone. Abbiamo incontrato Cecilia nel suo ufficio milanese, tra i
manifesti delle campagne di raccolta fondi e le carte geografiche dell’Asia e dell’Africa.

Partiamo dall’emergenza Ebola, in Sierra Leone. Come riuscite a fronteggiarla?
Di giorno in giorno diventa più difficile. Per fortuna il personale - 20 dello staff internazionale, 300 locali - è formato: nessuno è andato via, e stiamo rinforzando la struttura. Abbiamo avuto qualche caso positivo, ma il nostro è un centro chirurgico, non facciamo il trattamento. Ora stiamo valutando con il governo della Sierra Leone e con l’Organizzazione mondiale della sanità come essere più incisivi.
Il problema è che dagli ospedali pubblici i medici stanno scappando per paura del contagio e molti
ammalati, con la sanità al collasso, si rifugiano nella medicina tradizionale. Ci arrivano bambini con la setticemia procurata dagli impacchi di letame.
Oggi siete presenti con 45 strutture in 6 Paesi, avete curato 6 milioni di persone. Se lo immaginava?
No. Mi ricordo ancora quando Gino (il padre, lei lo chiama per nome, ndr) al ritorno da una missione di guerra ci disse che dovevamo fondare un’organizzazione umanitaria. Eravamo al tavolo della cucina, io e Teresa (Sarti, sua madre, scomparsa nel 2009, ndr), e pensammo che Kabul gli aveva dato alla testa. Invece cominciammo a parlarne con gli amici della Croce Rossa Internazionale. Tante persone si appassionarono subito all’idea semplice di curare le vittime delle guerre e delle mine.

Primi ricordi?
Gino tornato da Kigali, in Ruanda, dove era riuscito a riaprire l’ospedale. Aveva portato le punte delle lance che avevano ucciso i pazienti. Pensavo che non avrei più rivisto armi simili e invece, oggi, nella Repubblica Centrafricana i bambini vengono ammazzati a colpi di machete.

Il primo contatto con la guerra?
A 8 anni mio padre mi ha portato al campo medico di Quetta, in Pakistan, e là ho visto un bambino della mia età con una pallottola in testa. Mi è scattato qualcosa.

Non sarà stato facile crescere come “figlia di Emergency”.
Mi sento fortunatissima, ho avuto la possibilità di scoprire che il mondo non è come lo immaginavo e al tempo stesso di fare la mia parte. Questo lavoro mi dà più di quanto mi prenda.
Si sarà sentita diversa dai coetanei.
Certo. Vent’anni fa con un mio compagno di liceo, che ancora lavora con noi, portavamo in giro le
mostre sulle mine antiuomo. Diversi ci sentiamo tutti: un medico che sta sei mesi da solo in una valle
dell’Afghanistan, poi torna e si ritrova in un ospedale con troppi dottori e zero pazienti... Be’, è chiaro che si senta fuori posto.

Le altre emergenze di oggi, per voi?
L’Afghanistan, dove a luglio abbiamo avuto il record di ricoveri, in 15 anni.
Eppure non se ne parla.
Se i militari se ne vanno, non è il caso di raccontare che ci sono ancora vittime. Invece ci sono.
L’Afghanistan è anche il Paese dove la presenza di Emergency è più articolata, perché le donne
devono chiedere al marito il permesso per farsi curare. Noi nel centro maternità abbiamo solo personale femminile. Il mio cuore è là.

In Italia avete poliambulatori a Palermo, Marghera, Polistena. La sanità pubblica non basta?
Diamo una mano a quelli che al pubblico non si rivolgono, perché non conoscono i loro diritti: stranieri irregolari e regolari, ma anche italiani. A settembre cominciamo i lavori per un nuovo poliambulatorio a
Ponticelli, vicino a Napoli.

I rapporti con la politica?
Invitiamo sempre i politici a conoscere le nostre strutture. Ma solo il presidente della Camera, Laura
Boldrini, ha visitato il nostro centro mobile a Siracusa. Con pochi altri.

Dov’è suo padre, adesso?
In Sudan, al centro di cardiochirurgia che è uno dei nostri fiori all’occhiello. L’idea era quella di portare la chirurgia d’eccellenza in Africa, perché non è vero che là si devono curare solo la diarrea o le infezioni.

Ha mai avuto paura per lui?
Mio padre ha visto da vicino parecchie guerre. E' rientrato in Afghanistan a cavallo quando le frontiere erano chiuse superando un passo a 4500 metri, e aveva già 4 bypass. Ho paura per tutti: qualche settimana fa è morto un nostro soccorritore in Afghanistan, il primo ucciso in servizio. Ho avuto paura per me nel ’94. Ero a Falluja, stavamo portando un camion di aiuti quando un uomo ci aggredì urlando “Berlusconi”: non voleva gli aiuti da un Paese che in Iraq aveva mandato i soldati.

Prossimo obiettivo?
Un centro di eccellenza di chirurgia pediatrica in Uganda. E' appena partito il primo cantiere di test,
servono i fondi. Il progetto c’è, firmato da Renzo Piano. Ci ha fatto un bel regalo.

Suo figlio crescerà come lei?
Ha 5 anni: per ora l’ho portato a trovare il nonno, in Sudan. Spero che faccia quel che vuole e sia felice.

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