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giovedì 10 marzo 2016

Fukushima cinque anni dal disastro Nucleare




Fukushima cinque anni dopo: radiazioni 35 volte superiori al massimo consentito
Gli abitanti vengono forzati a rientrare nelle loro case, nonostante la contaminazione sia ancora a livelli altissimi, per bloccare i risarcimenti agli evacuati dal 2018.
 Lo conferma anche un rapporto di Greenpeace

PER LA PRIMA VOLTA nella storia del Giappone un tribunale locale ha ordinato lo stop di due reattori nucleari per ragioni di sicurezza. A cinque anni dal disastro dell'11 marzo alla centrale nucleare di Fukushima, in Giappone, a causa del terremoto e dello tsunami che hanno messo in ginocchio il paese, la vicina città di Tomioka è abbandonata. Il livello di radiazioni è ben al di sopra dei limiti consentiti: Anche in diverse zone circostanti il pericolo di esposizione alle radiazioni è ancora molto alto, sebbene il governo spinga molti sfollati (sono ancora centomila, circa la metà)
 a far rientro nelle loro case. 


Evacuazioni e risarcimenti. Lo conferma anche un rapporto di Greenpeace: a Fukushima il governo vuole che la maggioranza della popolazione evacuata faccia rientro a casa nel 2017 anche se le aree sono ancora contaminate. "Questo è inaccettabile - dichiara il fisico Valerio Rossi Albertini, ricercatore del Cnr e membro del comitato scientifico di Green Cross, Ong ambientalista che ha effettuato i campionamenti nella Prefettura di Fukushima per valutare gli attuali rischi per l'uomo e l'ambiente - perché bisogna almeno lasciare ai cittadini la possibilità di decidere. Togliere l'indennizzo costringe di fatto molte famiglie indigenti a tornare in un ambiente pericoloso e nocivo, reso tale dalla colpevole leggerezza dei vertici della Tepco. Tanto più che, ad aggravare la situazione, concorre anche l'acqua di raffreddamento radioattiva rilasciata a più riprese dalla centrale di Fukushima nell'ambiente circostante". La revoca del provvedimento di sgombero dalle aree contaminate, decisione che nel 2018 bloccherà i risarcimenti che la compagnia elettrica Tepco, gestore della centrale nucleare di Fukushima, è obbligata a corrispondere ai 50.000 evacuati, e che avrà l'effetto di far tornare i cittadini in zone con livelli di radiazioni altissimi.

Radiazioni. Le ultime rilevazioni parlano di 4,01 microSievert/ora. Sono 35 volte superiori rispetto alla massima dose annua fissata dalle Raccomandazioni della Commissione Internazionale per la Protezione Radiologica, secondo il fisico nucleare Stephan Robinson, direttore dei programmi acqua e disarmo di Green Cross Svizzera. Un dato allarmante, ma non basta. "Anche al di fuori di quest'area - continua Robinson - ad esempio a Koriyama, i parametri risultano fino a 20 volte più alti della soglia". Il rischio è dovuto anche agli alimenti contaminati.



Sicurezza nucleare. I reattori 3 e 4 di Takahama erano stati riaccesi a fine gennaio, ma il reattore 4 era già stato bloccato dopo tre giorni per un problema tecnico. In Giappone rimangono così al momento solamente due reattori in funzione. A due giorni dal quinto anniversario dell'incidente di Fukushima, la decisione della Corte distrettuale di Otsu di ordinare l'arresto dei reattori di Takahama, sottolinea la divergenza dei giudizi e nelle valutazioni sul tema della sicurezza nucleare in Giappone, non solo tra l'opinione pubblica, ma anche nei diversi organi dell'apparato statale. Malgrado l'introduzione di norme più rigorose da parte dell'Agenzia della Sicurezza Nucleare per la manutenzione e la gestione delle centrali, sponsorizzate dall'esecutivo di Shinzo Abe e definite "tra le più stringenti al mondo", il tribunale distrettuale della prefettura di Shiga è riuscito lì dove non avevano potuto le petizioni di migliaia di cittadini, aprendo un punto di rottura al tentativo del governo di un graduale riavvio delle 43 centrali del paese, tutt'ora dormienti. 

Progettazione. La Corte spiega la decisione con l'inadeguatezza delle misure di emergenza, e imprecisati difetti nella progettazione dell'impianto. In altre parole, gli standard che servirebbero a scongiurare un'altra tragedia come quella di Fukushima, non sono stati ancora raggiunti. A questo proposito l'ingegnere Paolo Ruffatti, che è stato capo officina nella costruzione della centrale di Caorso, a Piacenza, spiega che "l'impianto di estrazione degli incondensabili aveva una sola tubazione di grosso diametro per la raccolta/aspirazione: il reattore 4 è esploso a causa della quantità di idrogeno che è passata attraverso quel tubo unico".

Incidente. Un'onda di 14 metri ha invaso la centrale alle 15.35 dell'11 marzo 2011. Dei sei reattori solo i primi tre erano funzionanti in quel momento. Dei 12 generatori delle pompe di raffreddamento 11 sono andati fuori uso. E la centrale è andata in blackout. Le esplosioni che hanno polverizzato le gabbie esterne di contenimento del reattore 4 sono state causate dall'idrogeno: si era accumulato dal vapore caldo entrato in contatto con barre di combustibile nucleare surriscaldate. Queste barre erano ricoperte da un rivestimento in lega di zirconio, o "zircaloy", il materiale utilizzato in tutti i reattori raffreddati ad acqua, che costituiscono oltre il 90% dei reattori delle centrali nucleari.

Negligenza. Il governo giapponese ha rilasciato una serie di rassicurazioni, perché nel paese, ad alto rischio sismico, ci sono 18 centrali nucleari. Anche la Tepco, l'azienda che gestisce l'impianto, ha cercato di minimizzare l'incidente: ha dato informazioni imprecise e vaghe soprattutto nei primi giorni dell’emergenza, non dichiarando con precisione la quantità di radiazioni rilasciate e le informazioni sullo stato dei sistemi di raffreddamento di tutti i reattori e sul livello di sicurezza delle piscine di raffreddamento del combustibile irraggiato. E nel 2005 i vertici della società si erano dovuti dimettere per aver falsificato rapporti sulla sicurezza delle centrali per un periodo di oltre 15 anni. Il quotidiano "Asahi" ha riferito qualche giorno fa che tre ex dirigenti, l'ex presidente di Tepco Tsunehisa Katsumata e due ex vicepresidenti, Sakae Muto e Ichiro Takekuro, sono stati incriminati per negligenza professionale, per non aver adottato alcuna misura preventiva di sicurezza in vista eventi straordinari (ma non rari, visto che il Giappone letteralmente poggia su una faglia sismica) come il terremoto del 2011.



Rischi noti. "Le vulnerabilità in termini di sicurezza, inclusa la vulnerabilità a un'onda di tsunami alta 10 metri era ben nota e ribadita in un rapporto commissionato dalla Tepco del 2008", conferma il direttore esecutivo di Greenpeace, Giuseppe Onufrio, che aggiunge: "Le negligenze nel campo della sicurezza nucleare - sia nella costruzione che nella gestione - sono estremamente diffuse: dalle migliaia di crepe scoperte da poco nei reattori belgi di Doel e Thiange alla insufficiente dotazione di generatori di emergenza (scoperta con i recenti stress test: un solo generatore d'emergenza in centrali nucleari con 6 reattori come a Gravelines in Francia) e persino a Flamanville dove costruiscono l'Epr (il reattore nucleare europeo ad acqua pressurizzata) per il quale tempi e costi per il colosso dell'energia nucleare Edf si dilatano sempre più. In ogni caso, nessun reattore noto potrebbe evitare la fusione del nocciolo (la parte del reattore a fissione che contiene le componenti di combustibile) se, come a Fukushima, mancasse la corrente per giorni e giorni e il generatore d'emergenza fosse fuori uso. L'esplosione si poteva evitare, ma ciò non avrebbe evitato la fusione del nocciolo (e il rilascio di radioattività) che nel reattore 1 è avvenuta in meno di 12 ore, come del resto era noto dalle stime dell'Oak Ridge National Labs che aveva effettuato queste valutazioni già negli anni Ottanta.

Danni ambientali. Di tutte le tonnellate di acqua (400 tonnellate al giorno) stoccata e pompata dai tecnici della Tepco per tenere l'impianto al di sotto della temperatura "subcritica" di 100 gradi centigradi e impedire una fusione nucleare, non si sa quante decine siano state sversate in mare. E quante ancora oggi, secondo l'allora premier giapponese Naoto Kan, anche se la Tepco nega. L'acqua contaminata pompata dal sottosuolo e presente nei pozzi, infatti, sta fuoriuscendo spontaneamente verso l'oceano. Tepco  ha costruito una barriera sotterranea di contenimento che, pare, non funzioni. ll rapporto di Greenpeace dice che Fukushima avrà impatti ambientali per secoli e che il programma di decontaminazione del governo non ne ridurrà la portata. 
"Purtroppo, temo che Greenpeace abbia ragione",
 ha ribadito l'ex premier giapponese Naoto Kan.


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Pro e Contro il Referendum sulle Trivellazioni


Pro e contro il referendum sulle trivellazioni

Per cosa andremo a votare il 17 aprile, spiegato bene: si parla degli impianti che esistono già i nuovi sono vietati in ogni caso – e quelli per il Sì dicono che è un "voto politico"

Per la prima volta nella storia della Repubblica, il prossimo 17 aprile gli elettori italiani saranno chiamati a votare a un referendum richiesto dalle regioni, invece che – come di solito avviene – tramite una raccolta di firme. Si tratta del cosiddetto referendum “No-Triv”: una consultazione per decidere se vietare il rinnovo delle concessioni estrattive di gas e petrolio per i giacimenti entro le 12 miglia dalla costa italiana. In tutto le assemblee di nove regioni hanno chiesto il referendum: Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise. Una raccolta di firme per presentare il referendum era fallita lo scorso inverno. L’esito del referendum sarà valido solo se andranno a votare il 50 per cento più uno degli aventi diritto al voto.
Cosa vuole cambiare il referendum
Nel referendum si chiede agli italiani se vogliono abrogare la parte di una legge che permette a chi ha ottenuto concessioni per estrarre gas o petrolio da piattaforme offshore entro 12 miglia dalla costa di rinnovare la concessione fino all’esaurimento del giacimento.

 Il quesito del referendum, letteralmente, recita:
Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilita’ 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?
Il comma 17 del decreto legislativo 152 stabilisce che sono vietate le «attività di ricerca, di prospezione nonché di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi» entro le 12 miglia marine delle acque nazionali italiane. La legge stabilisce che gli impianti che esistono entro questa fascia possono continuare la loro attività fino alla data di scadenza della concessione, che su richiesta può essere prorogata fino all’esaurimento del giacimento. Si parla quindi di permettere o no che proseguano le estrazioni sugli impianti che esistono già.

La situazione oggi
Gran parte delle 66 concessioni estrattive marine che ci sono oggi in Italia si trovano oltre le 12 miglia marine, che non sono coinvolte dal referendum. Il referendum riguarda soltanto 21 concessioni che invece si trovano entro questo limite: una in Veneto, due in Emilia-Romagna, uno nelle Marche, tre in Puglia, cinque in Calabria, due in Basilicata e sette in Sicilia. Le prime concessioni che scadranno sono quelle degli impianti più vecchi, costruiti negli anni Settanta. Le leggi prevedono che le concessioni abbiano una durata iniziale di trent’anni, prorogabile una prima volta per altri dieci, una seconda volta per cinque e una terza volta per altri cinque; al termine della concessione, le aziende possono chiedere di prorogare la concessione fino all’esaurimento del giacimento.
Se al referendum dovessero vincere il sì, gli impianti delle 21 concessioni di cui si parla dovranno chiudere tra circa cinque-dieci anni. Gli ultimi, cioè quelli che hanno ottenuto le concessioni più recenti, dovrebbero chiudere tra circa vent’anni. In tutto in Italia ci sono circa 130 piattaforme offshore utilizzate in processi di estrazione o produzione di gas e petrolio. Quattro quinti di tutto il gas che viene prodotto in Italia (e che soddisfa circa il 10 per cento del fabbisogno nazionale) viene estratto dal mare, così come un quarto di tutto il petrolio estratto in Italia. Nessuno al momento ha calcolato quale percentuale di gas e petrolio viene prodotta entro le 12 miglia marine, né quanto sono abbondanti le riserve che si trovano in quest’area.

Cosa succede in caso di vittoria dei sì
Il referendum non modifica la possibilità di compiere nuove trivellazioni oltre le 12 miglia e nemmeno la possibilità di cercare e sfruttare nuovi giacimenti sulla terraferma: e compiere nuove trivellazioni entro le 12 miglia è già vietato dalla legge. Una vittoria dei sì al referendum impedirà l’ulteriore sfruttamento degli impianti già esistenti una volta scadute le concessioni. Il giacimento di Porto Garibaldi Agostino, per esempio, che si trova a largo di Cervia, in Romagna, è in concessione all’ENI ed è sfruttato da sette piattaforme di estrazione. La concessione risale al 1970 ed è stata rinnovata per dieci anni nel 2000 e per cinque nel 2010. In caso di vittoria del sì, l’ENI potrà ottenere una seconda e ultima proroga per altri cinque: dopo sarà costretta ad abbandonare il giacimento, anche se nei pozzi si trovasse ancora del gas.

Le ragioni di chi è favore del Sì
Secondo i vari comitati “No-Triv”, appoggiati dalle nove regioni che hanno promosso il referendum e da diverse associazioni ambientaliste come il WWF e Greenpeace, le trivellazioni andrebbero fermate per evitare rischi ambientali e sanitari. I comitati per il No ammettono che per una serie di ragioni tecniche è impossibile che in Italia si verifichi un disastro come quello avvenuto nell’estate del 2010 nel Golfo del Messico, quando una piattaforma esplose liberando nell’oceano 780 milioni di litri di greggio, ma sostengono che un disastro ambientale in caso
 di gravi malfunzionamenti di uno degli impianti sia comunque possibile.
Alcuni aderenti ai comitati per il Sì hanno anche parlato dei danni al turismo che avrebbero arrecato le piattaforme. È importante sottolineare, però, che il referendum non impedirà nuove trivellazioni (che sono già vietate) né la costruzione di nuove piattaforme, ma solo lo sfruttamento di quelle già esistenti. Inoltre, il legame tra piattaforme e danni al turismo non è stato dimostrato chiaramente. La regione con il più alto numero di piattaforme, l’Emilia-Romagna, è anche una di quelle con il settore turistico più in salute. La Basilicata, la regione del sud più sfruttata per la produzione energetica, è stata una di quelle che negli ultimi anni hanno visto crescere di più il settore turistico.
Questa settimana Greenpeace ha pubblicato uno studio realizzato dall’ISPRA, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca, che mostra come tra il 2012 e il 2014 ci siano stati dei superamenti dei livelli stabiliti dalla legge per gli agenti inquinanti nel corso della normale amministrazione di alcuni dei 130 impianti attualmente in funzione in Italia. Non sembra però che i valori fossero particolarmente preoccupanti. Gli stessi promotori del referendum sottolineano che l’inquinamento non è la priorità che ha reso necessario il referendum. La ragione principale, spiegano, è “politica”: dare al governo un segnale contrario all’ulteriore sfruttamento dei combustibili fossili e a favore di un maggior utilizzo di fonti energetiche alternative. Come è scritto sul sito del coordinamento “no-triv”:
«Il voto del 17 Aprile è un voto immediatamente politico, in quanto, al di là della specificità del quesito, residuo di trabocchetti e scossoni, esso è l’UNICO STRUMENTO di cui i movimenti che lottano da anni per i beni comuni e per l’affermazione di maggiori diritti possono al momento disporre per dire la propria sulla Strategia Energetica nazionale che da Monti a Renzi resta l’emblema dell’offesa ai territori, alle loro prerogative, alla stessa Costituzione italiana»

Le ragioni di chi è a favore del No
Contro il referendum è stato fondato il comitato “Ottimisti e razionali“, presieduto da Gianfranco Borghini, ex deputato del Partito Comunista e poi del PdS. Il comitato sostiene che continuare l’estrazione di gas e petrolio offshore è un modo sicuro di limitare l’inquinamento: l’Italia estrae sul suo territorio circa il 10 per cento del gas e del petrolio che utilizza, e questa produzione ha evitato il transito per i porti italiani di centinaia di petroliere negli ultimi anni.
Una vittoria del sì avrebbe poi delle conseguenze sull’occupazione, visto che migliaia di persone lavorano nel settore e la fine delle concessioni significherebbe la fine dei loro posti di lavoro. Nella provincia di Ravenna il settore dell’offshore impiega direttamente
 o indirettamente quasi settemila persone.
L’aspetto “politico”, infine, è una delle principali ragioni per cui il referendum è stato criticato. Il referendum, secondo gli “Ottimisti e razionali”, è lo strumento sbagliato per chiedere al governo maggiori investimenti nelle energie rinnovabili. Il referendum, dal loro punto di vista, somiglia più a un tentativo di alcune regioni – che hanno reso possibile la consultazione – di fare pressioni sul governo in una fase in cui una serie di leggi recentemente approvate e la riforma costituzionale in discussione stanno togliendo loro numerose autonomie e competenze, anche in materia energetica.


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