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sabato 28 aprile 2018

Immaginate l’Auto del Futuro


Come ve l’immaginate l’auto di lusso nel futuro? Per i francesi di PSA, potrebbe avere le sembianze della DS TENSE, manifesto programmatico sotto forma di concept car che dovrebbe coniugare “tecnologia e poesia”. Innanzitutto, con forme decisamente appariscenti. Attese non prima del 2035.






Agli appassionati di storia dell’auto basti un paragone: la DS TENSE , annuncia la Casa francese , è rivoluzionaria come la leggendaria “Dea” del Double Chevron, che rimodulò il concetto di berlina di lusso oltre 60 anni fa. Oggi (anzi, domani) il tutto vira sulla sportività: il prototipo DS è infatti una classica barchetta che bilancia attentamente, nello stile, fermezza ed eleganza, decisione e gentilezza. E, soprattutto, fa tornare la voglia di guidare.




DS TENSE è asimmetrica: al posto guida si accede con una porta ad ala di gabbiano, in pelle e carbonio. Nessuna copertura fra chi guida ed il cielo. A destra, un’altra porta a farfalla schiude un universo dedicato al passeggero, coperto con una capsula in vetro trasparente. Se il pilota siete su un sedile che si adatta al suo corpo e trova davanti a sé un volante in pelle, boiserie e metallo, il passeggero riceve tutt’altro trattamento. La seduta ad ala d’uccello è ventilata e massaggiante, con una stola di piume nella parte superiore.




Chi viaggia sulla DS TENSE può scegliere: farsi guidare dal sistema di guida autonoma o prendere posto dietro al volante. La sensazione di velocità è accentuata dal pavimento in vetro trasparente fotocromatico, con le tinte blu marine e rosso scuro che smorzano la luce in abitacolo e la diffusione di profumazioni che aumenta il comfort olfattivo. Iris, l’assistente personale, si presenta sotto forma di ologramma e controlla le funzioni del veicolo restando in contatto con il mondo esterno, per aiutarvi in qualsiasi momento del viaggio.



Se il vostro pallino sono le prestazioni, avrete pane per i vostri denti: DS TENSE è spinta da un motore elettrico capace di 540 cv, che possono diventare ben 1.360 se si utilizza la modalità circuito. Un bagaglio tecnico sviluppato dalla divisione DS Performance nel Campionato di Formula E, per far sì che ogni tragitto sia da ricordare. Anche dal punto di vista della sicurezza, con la carrozzeria capace di ricomporsi in caso d’incidente. Nel 2035 vedremo se sarà tutto confermato.



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domenica 22 aprile 2018

Giornata della Terra

Giornata della Terra e la sua storia
Ricorre ogni anno dal 22 aprile 1970: 
un po’ di consigli per “festeggiarla” come si deve.

Oggi è la Giornata della Terra –in inglese Earth Day –, che oltre a essere un momento di festa in cui si celebra il pianeta su cui viviamo è anche un’occasione per informare sullo stato dell’ambiente e per affrontare questioni che riguardano la protezione dell’ambiente, la lotta all’inquinamento e il modo per contrastare il progressivo esaurimento delle riserve naturali 
e la scomparsa di tante specie di animali e vegetali.


Da dove viene la Giornata della Terra
La Giornata della Terra si celebra ogni anno il 22 aprile dal 1970, anno in cui fu indetta per la prima volta dalle Nazioni Unite seguendo gli intenti del movimento ecologista degli Stati Uniti. Tra gli ideatori della Giornata della Terra ci fu il senatore Democratico statunitense Gaylord Nelson, che aveva già organizzato una serie di incontri e conferenze dedicati ai temi dell’ambiente.

Tra gennaio e febbraio del 1969 a Santa Barbara, in California, ci fu uno dei più gravi disastri ambientali degli Stati Uniti, causato dalla fuoriuscita di petrolio da un pozzo della Unione Oil: l’incidente portò Nelson a occuparsi in modo più attento e continuativo delle questioni ambientali, per portarle all’attenzione dell’opinione pubblica, ricalcando quanto avevano fatto i movimenti di protesta contro la guerra del Vietnam.


Il 22 aprile 1970 si tenne la prima Giornata della Terra, cui parteciparono milioni di cittadini statunitensi, con il coinvolgimento di migliaia di college, università e altre istituzioni accademiche, associazioni ambientaliste. Fu anche istituito l’Earth Day Network (EDN), un’organizzazione diventata poi internazionale per coordinare le iniziative dedicate all’ambiente durante tutto l’anno (dell’EDN fanno ora parte migliaia di movimenti e associazioni da tutto il mondo).

Considerato il successo e l’interesse intorno alla Giornata della Terra, l’anno seguente le Nazioni Unite ufficializzarono la partecipazione all’organizzazione, dando nuova visibilità e rilievo all’iniziativa. In oltre 45 anni, la Giornata della Terra ha contribuito in modo determinante allo svolgimento di iniziative ambientali in tutto il mondo che, nel 1992, portarono all’organizzazione a Rio de Janeiro del cosiddetto Summit della Terra, la prima conferenza mondiale dei capi di stato sull’ambiente. Da allora la Giornata della Terra è anche diventata l’occasione per divulgare informazioni scientifiche, e rendere più consapevoli le persone, sui rischi che comporta il riscaldamento globale e sulle soluzioni che possono essere adottate per contrastarlo.

Alcuni consigli per festeggiare la Giornata della Terra
L’adozione di nuove politiche e accordi internazionali sono la base per ridurre le cause del riscaldamento globale, ma nel 1970 come oggi, buona parte della responsabilità ricade su ciascuno di noi e su un uso più responsabile delle risorse che abbiamo a disposizione. I consigli sono quelli di sempre, ma può essere utile un breve ripasso dei comportamenti più semplici da adottare per ridurre il proprio impatto sull’ambiente:

l’utilizzo di lampadine a basso consumo consente di ridurre di molto la quantità di energia necessaria per illuminare gli ambienti di casa; inoltre, le nuove lampadine LED sono molto più pratiche e durano più a lungo delle precedenti generazioni di lampadine fluorescenti a basso consumo;
seguire le indicazioni per la raccolta differenziata – a partire dalla separazione di vetro, plastica, carta e umido – rende più semplice ed economico il riciclo dei materiali, e al tempo stesso contribuisce a ridurre i costi della tassa per i rifiuti;
aria condizionata e riscaldamento dovrebbero essere tenuti entro un intervallo di 5 °C in meno o in più rispetto alla temperatura esterna, per ottenere la massima resa e al tempo stesso ridurre i consumi di energia elettrica o gas;
mezzi pubblici, biciclette o i piedi sono ottimi sostituti dell’automobile, e una alternativa più salutare (poi, certo, molto dipende dall’offerta di servizi per questo tipo di trasporti nella propria città, ma anche su questo si può migliorare esigendo più attenzione da parte delle amministrazioni cittadine);
l’acqua non è una risorsa infinita, oltre al classico consiglio di non lasciare il rubinetto aperto mentre ci si lavano i denti o di preferire la doccia al bagno, è bene utilizzare elettrodomestici come lavatrice e lavastoviglie solo a pieno carico, oltre all’acqua si risparmia qualcosa anche in bolletta;
se state pensando di cambiare un elettrodomestico, scegliete quelli di categoria A, che consumano molta meno energia rispetto alla loro resa e sono spesso costruiti con materiali più ecologici;
rifiuti speciali come batterie, computer, smartphone e tablet devono essere portati nei centri di raccolta del proprio comune e non lasciati nei normali cassonetti; se il dispositivo è lento, ma funziona comunque ancora, può essere donato a scuole o altre istituzioni.




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sabato 14 aprile 2018

La Formula E è per Roma un'occasione Elettrica


Michela Cerruti, ex pilota di Formula E, 
parla dell'appuntamento a Roma, 
del brivido di correre su una vettura 
che non fa rumore e di quello che manca al GP elettrico 

Chi pensa che la Formula-E sia un’occasione solo 
per il Motorsport sbaglia di grosso: a guadagnarci sono anche le città che la ospitano, 
e non solo in termini di lustro e prestigio ma soprattutto come opportunità per ‘rimettersi in forma’. Ecco perché l’appuntamento di domenica prossima è particolarmente importante per Roma.


La pensa così Michela Cerruti, ex pilota automobilistica italiana che ha dichiarato all’Agi: “Nel giro di pochissimi anni le gare di Formula sono diventati tra gli eventi più interessanti e all'avanguardia non solo per quanto riguarda le corse con vetture elettriche, ma per l'ambiente del Motorsport in generale”. Le vetture – ha continuato – “corrono ormai da più di 3 anni nei centri delle città più importanti del mondo, che con gli eventi della serie elettrica hanno la possibilità di riqualificarsi, ospitare un evento internazionale frequentato da personaggi di spicco e da piloti che possono vantare palmarès tra i più forti nel panorama mondiale”.
Per Roma un’occasione per ‘aggiustarsi’”
Roma – aggiunge la pilota – “è la città più bella del mondo, e come tale non poteva di certo mancare, si è fatta attendere nelle scorse stagioni, ma ha finalmente deciso di far parte di un circuito tanto tecnologico quanto prestigioso. L'occasione è d'oro, per mostrarsi in tutta la propria bellezza e aggiustarsi dove, purtroppo, a tratti non sarebbe presentabile. Non c'è altro posto in cui il Papa in persona si sarebbe potuto presentare per benedire piloti e Campionato, e già questa visita preannuncia l'inizio di un weekend estremamente speciale, che sarà di certo ricco di azione difficile da dimenticare”. Il tracciato cittadino, che si concentra nel quartiere dell’Eur e misura 2,7 km, è uno dei più lunghi della stagione.



I limiti dell’elettrico? La mancanza del ‘malsano’
Dopo una lunga esperienza sul circuito tradizionale, nel 2014-2015 Michela Cerruti prende parte al neo campionato di Formula E con il team Trulli GP. Alla vigilia dell'EPrix di Miami, dopo quattro tappe disputate, decide di lasciare il team. “L’ho fatto per alcuni problemi con il team che poi è fallito a fine stagione”, ha spiegato la Cerruti all’Agi. Sostenitrice delle nuove frontiere green delle due e quattro ruote, ammette però un loro limite: l’assenza di fumo, rumore e odore. Perché “proprio quelle cose malsane che il motore pulito vuole combattere è ciò che appassiona i seguaci del Motorsport”. “Le auto e le moto elettriche hanno un’immagine e un suono futuristico, ma non credo riescano ad affascinare. Quello che attrae è il concetto, la velocità, ma agli spettatori qualcosa manca. In compenso si riesce a percepire di più il rumore degli scontri”.
Meno appassionati ma un folto pubblico di interessati
Forse sarà difficile per le auto e moto elettriche conquistare il cuore degli spettatori ma sicuramente “i curiosi sono moltissimi. Tante persone che non seguivano il Motorsport oggi conoscono la Formula E perché gli organizzatori sono stati bravi a portarla sotto le loro case. Sono stati in grado di avvicinare queste persone. E’ una realtà appassionante per quanto riguarda la tecnologia, la bravura dei piloti, ma fidelizzare e colpire al cuore gli spettatori è più difficile.
Diverso ma non marginale
Ma di una cosa è convinta Cerruti: i campionati elettrici e quelli tradizionali hanno entrambi ragione di esistere. E soprattutto, guardando in prospettiva, al futuro, al tema dell’eco-compatibilità e dell’inquinamento, è giusto che esista questo tipo di corse”.
La sfida della ricerca? Un’intera gara con una sola auto
Ma c’è ancora una sfida che l’elettrico deve vincere: “quella di concludere un’intera gara con un’unica auto. Ad oggi non è possibile, bisogna fermarsi e cambiare auto. Ma in un prossimo futuro è questo quello che succederà. Bisogna sottolineare comunque che, al contrario di ciò che accade con la F1, in cui la ricerca va di pari passo con le autostradali e la sperimentazione è continua, il mondo delle ruote pulite ha in parte le mani legate in quanto la batteria è uguale per tutti e i team possono modificare solo il motore”, sostiene la Cerruti.





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venerdì 13 aprile 2018

Impianti di Recupero dei Rifiuti, 110 Incendi nel 2017


Una media, registrata negli ultimi 4-5 anni, di oltre cento incendi l'anno ai danni degli impianti di recupero dei rifiuti. Nel 2017 sono andati in fiamme ben 110 impianti, tra cui sette discariche, mentre nel 2018 sono già bruciati altri 27 impianti. Quasi il 50% delle indagini avviate dalle procure viene archiviato e solo per il 13% si avviano procedure di carattere penale.

E mappando gli incendi che hanno colpito gli impianti di recupero rifiuti, ad emergere è che il fenomeno interessa tutto il territorio nazionale, "segno che i tentacoli del crimine sui rifiuti è, purtroppo, diffuso capillarmente in tutto il Paese". E' quanto emerge dal dossier "Strategia criminale all'attacco degli impianti recupero rifiuti in tutta Italia" realizzato dai Verdi,
 a cura di Angelo Bonelli e Claudia Mannino.


Per i due curatori del dossier, l'ennesimo rogo che ha colpito la ditta di recupero di imballaggi plastici vicino Torino "certifica l'esistenza di una strategia criminale senza precedenti sull'impiantistica di recupero dei rifiuti in tutta Italia. I numeri parlano chiaro".

Un evento che si aggiunge a una lunga lista di incendi che la Commissione Bicamerale di inchiesta sul ciclo dei rifiuti ha analizzato in una relazione dettagliata approvata a inizio anno e secondo la quale a dicembre 2017 erano 261 i casi di incendi di impianti di trattamento rifiuti negli ultimi tre anni, di cui 124 nelle regioni del Nord, il 47,5% sul totale.


Anche per la Commissione Ecomafie, con questi numeri non si può più parlare di una sommatoria di singoli episodi, "ma di un fenomeno di dimensioni preoccupanti, specialmente se ne si confrontano modalità e caratteristiche". E se sono ancora tanti i nodi da sciogliere, quello è certo che esiste un’area 'grigia' di illeciti e mancato rispetto delle regole che si intreccia con un ciclo dei rifiuti che non funziona e che mostra carenze nella dotazione di impianti, soprattutto in alcune aree del Paese.

“Per tali ragioni - sottolineano Mannino e Bonelli - ribadiamo nuovamente con urgenza l’intervento della Procuratore Nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho per avviare una indagine su questi ripetuti incendi, estendendola anche alle amministrazioni pubbliche che conferiscono, con gara o con affidamento diretto, alle imprese i materiali provenienti dalla raccolta dei rifiuti urbani".


Per i Verdi è prioritario che le Procure e le Prefetture siano dotate di un database comune, affinché ogni indagine non sia a sé stante, e che diventi obbligatoria la videosorveglianza con videocamere termiche per risalire ai responsabili e prevenire la distruzione di impianti.

Finora, aggiungono, la risposta al fenomeno degli incendi agli impianti "è stata debole e sarà probabilmente inefficace. Ci auguriamo che il nuovo Parlamento e il futuro Governo prendano decisioni più incisive e significative su questo tema e più in generale 
sulla tutela dell'ambiente e della salute dei cittadini".




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martedì 10 aprile 2018

Le Palme migrano verso Nord grazie al Riscaldamento Climatico



La palma è decisamente un simbolo dei tropici, l’ideale sfondo della spiaggia bianca in cui tutti sogniamo di passare prima o poi una vacanza. Ma in futuro potremmo trovare palme anche ben più a nord delle regioni tropicali: secondo un team di ricercatori dell’Università di Brandon e di Saskatchewan, Canada, queste piante, che risalgono a  80 milioni di anni fa, si stanno spostando e stanno salendo verso longitudini più alte grazie al cambiamento climatico in atto.

In pratica, se l’andamento climatico in atto non si arresterà, non avremo più bisogno di mettere le palme in piazza del Duomo a Milano per dare un tocco di esotismo, perché diventeremo esotici noi.

Un esempio? In Svizzera, nel canton Ticino, dal 2014 l’Ufficio federale per l’ambiente ha classificato come specie invasiva la Trachycarpus fortunei, una piccola palma coltivata in Cina per produrre fibre tessili. Negli ultimi dieci anni, da tanto si trova bene, è diventata quasi una infestante, che mette a rischio la flora locale: si riproduce spontaneamente e si è diffusa nella parte meridionale del cantone.

In realtà ci sono  2.500 varietà di palme,  compresa la Chamaerops humilis che è spontanea nelle regioni mediterranee. E hanno tutte esigenze diverse. Trachycarpus, per esempio è una palma molto resistente, che sopporta anche di essere coperta dalla neve. Ma c’è molta differenza se una pianta viene coltivata o se invece cresce spontanea. Le palme non sopportano il freddo perché non sanno andare in dormienza, e non fanno, come quelle dei nostri climi, cadere le foglie in inverno. Inoltre per riprodursi in natura, in pratica per spuntare dove non era previsto, è necessario che il germoglio abbia la possibilità di emettere le foglioline. Purtroppo è la parte meno tollerante al freddo, ed è per questo che chi realizza delle coltivazioni parte da piante già grandi (e le copre in inverno).

Lo studio, pubblicato su Nature sostiene però che le palme stanno appunto diventando spontanee in aree dove prima non erano presenti e rivela che il limite per la loro distribuzione è dato dalla temperatura minima nel mese più freddo. Se quella si alza, le palme si spostano. In media, calcolano gli scienziati, sono necessari 2 gradi centigradi. E siccome il riscaldamento globale è in atto, molti animali e molte piante stanno muovendosi per colonizzare gli ambienti più adatti.

Le palme sono il simbolo più evidente, ma non sono le uniche a spostarsi. Secondo uno studio pubblicato su Science, oltre 4 mila specie percorrono in media 8 chilometri per ogni dieci anni verso nord. Gli abitanti del mare però sono ancora più veloci. Un altro studio del programma Ecosystem and climatic change del Institute of Hazard, Risk and Resilience di Durham, Inghilterra, sostiene che nello stesso periodo si spostino anche di 12 metri più su in altitudine.

Un esempio? Le mangrovie si sono espanse in maniera massiccia lungo le coste della Florida, andando tra l’altro a modificare gli ambienti palustri originari. Tra il 1984 e il 2011 l’estensione delle foreste di queste piante è cresciuta di 1200 ettari.

Dagli anni 80, ormai non ci sono dubbi, le temperature si stanno alzando in tutto il mondo. Secondo l’Ispra di varese nel 2016 (ultimi dati disponibili) l’anomalia della temperatura media annuale è stata di +1.54 gradi al nord, +1,44 al centro e +1,15 al sud e nelle isole. Tutti i mesi del 2016 sono stati più caldi al nord a eccezione di ottobre. Ma la stagione con maggiore anomalia è stata per l’appunto l‘inverno, con un valore medio nazionale di +2,15 gradi.



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domenica 8 aprile 2018

L'Africa si spaccherà in futuro creando un nuovo Continente



In Kenya il terreno si è spaccato in due causando una frattura in poco tempo. Secondo i media le prime avvisaglie si sarebbero verificate il 18 marzo. Nelle ultime settimane vi sono state in questa zona, lungo la Rift Valley, delle violenti piogge he hanno esteso la linea di faglia che geologicamente taglia in due il continente. L'enorme faglia, profonda oltre 15 metri e larga una ventina, ha spaccato la trafficata strada che unisce Mai Mahiu a Narok, a nord di Nairobi. Il fenomeno si estende, in profondità, lungo tutto il continente per oltre 3.400 chilometri.


Queste enormi spaccature costituiscono il campanello d'allarme di un fenomeno irreversibile. Un 
processo partito 25 milioni di anni fa e che porterà con i secoli ad un cambiamento sostanziale della 
geografia africana, dando la prova che questa andrà a dividersi in due, anche se ci vorranno milioni di anni. Si tratterebbe infatti di una spaccatura che sta sviluppandosi e andrà ad assottigliare la crosta 
terrestre fino a spezzare in due il continente africano. Secondo gli esperti, quattro paesi del Corno 
d'Africa, Somalia, Etiopia, Kenya e Tanzania si staccheranno dall'Africa e andranno a formare un nuovo continente, ma questo distacco definitivo delle placche, secondo gli esperti, non dovrebbe verificarsi prima di 50 milioni di anni, come già avvenuto con il Madagascar e la Nuova Zelanda.

Il geologo David Adede, ha spiegato al giornale locale Daily Nation che "La valle ha una storia di attività tettoniche e vulcaniche. Mentre la spaccatura è rimasta tettonicamente inattiva nel recente passato, ci potrebbero essere movimenti profondi all'interno della crosta terrestre, che portano a zone di debolezza che si estendono fino alla superficie". È da ricordare anche che, nel Corno d'Africa, il terreno ha già subito delle fratture: è un fenomeno, questo, analogo a quello della Pangea che ha portato il distacco dell'Africa dal Sud America.

Inoltre secondo gli studi, la spaccatura non è della stessa entità lungo tutta la sua lungezza: a sud, più 
recenti, la probabilità che vada estendendosi è piuttosto bassa soprattutto dove non vi sono grandi 
rischi di vulcanismo; nella regione di Afar, dove vi sono molte rocce vulcaniche, la litosfera si è 
assottigliata enormemente ed è probabile che si formerà qui un nuovo oceano.

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Zealandia, un nuovo continente: “È quasi completamente sommerso”
Nuova Zelanda, Nuova Caledonia e altre isole minori sono le sue uniche terre emerse. 
La Zealandia 
avrebbe fatto parte della Gondwana, sprofondando quasi completamente nel ...





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Zealandia, un Nuovo Continente




 “È quasi completamente sommerso”

Nuova Zelanda, Nuova Caledonia e altre isole minori sono le sue uniche terre emerse. La Zealandia avrebbe fatto parte della Gondwana, sprofondando quasi completamente
 nel corso di alcune decine di milioni di anni.


La sua esistenza viene teorizzata da decenni, ma grazie a nuove analisi condotte da un team internazionale di geologi ora ve n'è praticamente la certezza: la Terra ha un continente in più e il suo nome è “Zealandia”. La storia dei continenti sul nostro pianeta è piuttosto peculiare e il loro numero dibattuto, poiché esistono diverse terre emerse che possono essere divise o raggruppate fra loro in base al metodo di osservazione. Nel modello più utilizzato, la Terra ha sei continenti, ovvero Europa, America, Asia, Africa, Oceania e Antartide, tuttavia è tenuto in ampia considerazione anche quello a sette, dove il territorio americano è suddiviso in Nord America e Sud America. Esiste anche quello a quattro, nel quale Europa e Asia vengono fuse nella cosiddetta Eurasia. Che la Zealandia sia il quinto, sesto, settimo o ottavo continente non ha comunque molta importanza; ciò che conta per gli scienziati è la sua origine geologica, che ci racconta qualche dettaglio in più sulla storia del pianeta.

Gli studiosi, coordinati dal professor Nick Mortimer dell'Università di Otago (Dunedin), hanno specificato che la Zealandia si sarebbe staccata dal ‘supercontinente' Gondwana nel Mesozoico, tra gli 80 e i 60 milioni di anni fa, per poi sprofondare quasi completamente nel giro di alcune decine di milioni di anni. Oggi ne affiorerebbe soltanto il 6 o 7 percento dell'immenso territorio, che si estende per circa cinque milioni di chilometri quadrati al di sotto degli oceani Pacifico e Indiano. L'area che comprende la Zealandia, un grande massa unica e non una serie di piccoli frammenti, è paragonabile al 70 percento del territorio australiano; tra le sue terre emerse vi sono proprio la Nuova Zelanda, dalla quale prende il nome, la Nuova Caledonia, le Isole Norfolk e altre ancora.

L'esistenza della Zealandia, come specificato, viene teorizzata da oltre venti anni, e il suo nome venne coniato dal geologo Bruce Luyendyk nel 1995. Grazie ai nuovi rilievi satellitari e ad altre indagini, i cui dettagli sono stati pubblicati sulla rivista specializzata della Geological Society of America “Gsa Today”, ora ne è stata praticamente confermata l'esistenza. La Zealandia non è l'unico nuovo continente scoperto dai ricercatori; nelle scorse settimane un team di ricerca del German Research Centre for Geosciences (GFZ) e dell'Università di Oslo ha infatti dimostrato l'esistenza di “Mauritia” al di sotto delle isole Mauritius, 
un'altra porzione della Gondwana dalla quale originarono tutti i continenti.



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sabato 7 aprile 2018

Appello di Greenpeace sulle Linee di Nazca


 rabbia del Perù contro Greenpeace

Il blitz, l’indignaziazione del governo peruviano, poi le scuse. Non è finita bene la protesta spettacolare organizzata da greenpeace in Peru in coincidenza con la XX Conferenza Onu sul cambiamento climatico in corso a Lima. Il gruppo ambientalista ha realizzato una delle sue azioni di propaganda sul sito delle cosiddette Linee di Nazca - la serie di geoglifi che si trovano sul tratto fra le città di Nazca e Palpa, nel sud del Perù. Un sito archeologico considerato patrimonio dell’umanità. L’azione ha scatenato però l’ira del ministro peruviano della Cultura .

I militanti di Greenpeace sono entrati nottetempo nel sito - dove «è proibito l’accesso e qualsiasi tipo di intervento, a causa della fragilità delle figure», come ha denunciato il governo - e hanno disposto vicino a una delle figure più note, che rappresenta un colibrì, un messaggio scritto (in inglese) con lettere di stoffa gialla: «È tempo di cambiare! Il futuro è rinnovabile» 

Luis Castillo, sottosegretario al Patrimonio, si è detto «indignato» per l’iniziativa, ha ricordato che il colibrì e le altre figure costituite dalle Linee di Nazca sono state dichiarate patrimonio culturale dell’umanità dall’Unesco e ha sottolineato che una denuncia è stata presentata presso la procura di Nazca, per evitare tra l’altro che «i responsabili possano uscire dal paese»


Ovviamente l’azione è stata realizzata, come ha spiegato Greenpeace, 
«solo con lettere di stoffa disposte sul suolo e 
chi è intervenuto lo ha fatto senza provocare il minimo danno».
 Tuttavia l’organizzazione si è resa conto della «gaffe» e si è scusata: «Capiamo perfettamente che è una figuraccia - ammettono - Anziché mandare un messaggio davvero importante ai leader riuniti a Lima per i colloqui sul clima delle Nazioni Unite, ci siamo rivelati senza cura e grossolani. Abbiamo incontrato il ministro per la Cultura peruviano, responsabile del sito, per chiedergli scusa»

Il governo di Lima non ha accolto le “scuse” dell’organizzazione perché. ha spiegato il ministro della cultura, all’area archeologica sono stati fatti “danni irreparabili”. 
NON MI SEMBRA CHE CI SIANO DANNI
La conferenza stampa in cui si mostrano i risultati dell’ispezione degli esperti .


Per vedere le linee di Nazca sono stati creati delle torri apposite 
dove i turisti hanno una visuale dall’alto.

Incise nel Deserto di Nazca del Perù più di un millennio fa, le enigmatiche “linee di Nazca” continuano a catturare la nostra immaginazione. Si tratta di centinaia di geoglifi, ossia disegni sul terreno, che occupano...  



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martedì 3 aprile 2018

Come sarebbe l’Italia senza immigrati ?


Avremmo il 20% di bambini nati in meno nell’ultimo anno, 
una scuola pubblica con 35.000 classi e 68.000 insegnati in meno, saremmo senza 693.000 lavoratori domestici e 449.000 imprese. I numeri del modello di integrazione italiano che funziona.

“Come sarebbe l’Italia senza gli immigrati? Sarebbe un Paese con 2,6 milioni di giovani under 34 in meno e sull’orlo del crac demografico. Gli immigrati sono mediamente più giovani degli italiani e mostrano una maggiore propensione a fare figli.

Le nascite da almeno un genitore straniero in Italia fanno registrare un costante aumento: +4% dal 2008 al 2015, a fronte di una riduzione del 15,4% delle nascite da entrambi i genitori italiani. Dei 488.000 bambini nati in Italia nel 2015, anno in cui si è avuto il minor numero di nati dall’Unità d’Italia, solo 387.000 sono nati da entrambi i genitori italiani, mentre 73.000 (il 15%) hanno entrambi i genitori stranieri e 28.000 (quasi il 6%) hanno un genitore straniero.

È vero che il nostro sistema di gestione dei flussi migratori ha dovuto affrontare crescenti difficoltà. Il numero complessivo degli ospiti nelle strutture di prima e seconda accoglienza è passato dai 22.118 del 2013 ai 123.038 al 6 giugno 2016, con un aumento del 456%. Ma il nostro modello di integrazione degli stranieri che si stabilizzano sul territorio nazionale funziona.

Gli alunni stranieri nella scuola (pubblica e privata) nel 2015 erano 805.800, il 9,1% del totale. Senza gli stranieri a scuola (la maggioranza dei quali sono nati in Italia) si avrebbero 35.000 classi in meno negli istituti pubblici e saremmo costretti a rinunciare a 68.000 insegnanti, 
vale a dire il 9,5% del totale.

Anche sul mercato del lavoro la perdita dei migranti significherebbe dover rinunciare a 693.000 lavoratori domestici (il 77% del totale), che integrano con servizi a basso costo e di buona qualità quanto il sistema di welfare pubblico non è più in grado di garantire.

Gli stranieri mostrano anche una voglia di fare e una vitalità che li porta a sperimentarsi nella piccola impresa, facendo proprio uno dei segni distintivi del nostro essere italiani. Nel primo trimestre del 2016 i titolari d’impresa stranieri sono 449.000, rappresentano il 14% del totale e sono cresciuti del 49% dal 2008 a oggi, mentre nello stesso periodo le imprese guidate
 da italiani diminuivano dell’11,2%.

Anche i trattamenti previdenziali confermano che il rapporto tra “dare” e “avere” vede ancora i cittadini italiani in una posizione di vantaggio. I migranti che percepiscono una pensione in Italia sono 141.000: nemmeno l’1% degli oltre 16 milioni di pensionati italiani. Quelli che beneficiano di altre prestazioni di sostegno del reddito sono 122.000, vale a dire il 4,2% del totale.

Tutti segnali di quel modello di integrazione dal basso, molecolare, diffuso sul territorio che ha portato oltre 5 milioni di stranieri (che rappresentano l’8,2% della popolazione complessiva), appartenenti a 197 comunità diverse, a vivere e a risiedere stabilmente nel nostro Paese e che, alla prova dei fatti, ha mostrato di funzionare bene e di non aver suscitato i fenomeni di involuzione patologica che si sono verificati altrove in Europa, dove i territori ad altissima concentrazione di immigrati sono esposti a più alto rischio di etnodisagio.

Dei 146 comuni italiani che hanno più di 50.000 abitanti, solo 74 presentano una incidenza di stranieri sulla popolazione che supera la media nazionale. Tra questi, due si trovano al Sud: Olbia in Sardegna, con il 9,7% di residenti stranieri, e Vittoria in Sicilia, con il 9,1%. Brescia e Milano sono i due comuni italiani con più di 50.000 residenti che presentano la maggiore concentrazione di stranieri, che però in entrambi i casi è pari solo al 18,6% della popolazione. Seguono Piacenza, in cui gli stranieri rappresentano il 18,2% dei residenti, e Prato con il 17,9%”. 

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ITALIA SENZA MIGRANTI
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